Serve a qualcosa, oggi, la Geometria Descrittiva?

Lo aveva esposto chiaramente Monge a suo tempo, ma se essa serva "ancora" a qualcosa, oggi, non lo so. Non è falsa modestia, lo giuro. Ma ho l'impressione che, posta così la domanda, in effetti, e rileggendo un articolo di Riccardo Migliari dal titolo "Riflessioni sulla Geometria Descrittiva e il suo insegnamento" del 2002 (vedi in calce), essa non serva a niente, se non a indicare le cattedre della omonima materia insegnata presso le facoltà universitarie di architettura e di ingegneria dove, spesso, si insegnano altre cose come l'addestramento al disegno elettronico e poco più, cosa che si può fare benissimo da casa, senza un docente in carne e ossa, e solo con l'uso del manuale on line che tutti i programmi ormai forniscono.

Se, invece, formulo la domanda diversamente, e cioè: Serve a qualcuno, oggi, la geometria descrittiva? Allora la risposta è decisamente positiva.
Migliari dimentica uno dei due fattori che dovrebbero interessarlo: è bravissimo in Geometria Descrittiva, se ne è occupato da una vita, ma non sa se serve a qualcuno. Cioè, l'oggetto gli è chiaro: la Geometria Descrittiva. Ma il soggetto, che poi sarebbe lo studente che si rivolge ai suoi corsi, non lo considera se non una specie di operatore - diciamo ... al CAD - da addestrare per fornire progetti e piani di cantiere a chi glieli chiederà.
Da qui la povertà delle considerazioni che esplicita in quell'articolo, dimenticando di essere un docente che ha dei discenti ai quali impartire una disciplina. Potrà sembrare cacofonico, ma i tre termini vanno sempre a braccetto: docente, disciplina e discente. Anzi, invertirei l'ordine: discente, disciplina, docente. Perché non credo possa esistere un docente senza discenti, mentre senz'altro può esistere un docente senza disciplina, e Socrate ne è il prototipo nel mondo occidentale, come Lao Tsu in quello orientale. Il discente, poi, non è un modello, ma un essere pensante unico, con il suo bagaglio di conoscenze e pregiudizi, i suoi vezzi, i suoi tic, e non ce n'è uno uguale ad una altro.

Si può desumere, da quanto accennato, che l'oggetto di queste considerazioni non sarà la disciplina, tanto cara al Migliari, che la chiama, impropriamente a mio parere, scienza della rappresentazione, ma il discente che in genere, almeno e sicuramente in ambito universitario, rimane un oggetto, mentre qui lo si vuole "soggetto" dell'apprendimento di quella disciplina, anzi soggetto dell'apprendimento tout court, mentre la disciplina sarà considerata come uno strumento per l'apprendimento. Esso, l'apprendimento,  poi, non riguarderà solo la disciplina di cui parliamo, cioè la Geometria Descrittiva, ma principalmente riguarderà ciò che essa attiva nel cervello dello studente, e cioè la facoltà di articolare pensieri di natura logico-deduttiva e - perché no? - anche di natura induttiva, che rimarranno in quella testa per tutta la vita, mentre la disciplina - ad esempio, se due rette formano un piano e a quali condizioni - potrà anche dimenticarla quello studente, soprattutto se andrà a fare il cameriere o il venditore in un negozio di arredamenti.
Se quello studente avrà fatto abbastanza palestra (di geometria descrittiva, in questo caso), i muscoli se li porterà dietro per sempre. Se, invece, il docente avrà fatto palestra lui stesso, esponendo i virtuosismi di cui la materia fornisce ampie occasioni, ma senza fare da allenatore, allora allo studente non verranno i muscoli e rimarrà sempre un rachitico dal punto di vista dell'articolazione del pensiero, il quale rachitismo si evidenzierà nel linguaggio da lui usato anche nelle questioni più comuni della vita. Pavel Florenskij (1882-1937) diceva: Chi agisce con approssimazione si abitua anche a parlare con approssimazione, e il parlare grossolano, impreciso e sciatto coinvolge in questa indeterminatezza anche il pensiero. E secondo me, vale di più e soprattutto l'inverso, cioè: l'agire in modo scoordinato e approssimativo rispecchia un pensiero tale, ovvero il pensiero è la causa e l'agire ne è l'effetto.

In questo contesto la Geometria Descrittiva è solo uno strumento per imparare altre cose, e il suo "contenuto", con tutta l'abilità che occorre apprendere nel dedurre quel che c'è da dedurre - ad esempio, nel misurare l'angolo tra due piani - fornisce a monte una specie di meta-disciplina, senza la quale l'insegnamento della disciplina è tanto più vano e inconsistente quanto più il docente si sarà librato in alto con virtuosismi grafico-rappresentativi.
Tale meta-disciplina, inoltre, non è appannaggio solo della geometria descrittiva, ma è comune anche all'apprendimento della grammatica di una lingua, sia essa l'italiano, che è quella con cui ci esprimiamo in questo scritto e di solito tutti i giorni, come anche del latino e del greco che si insegnano nel liceo classico, come del sanscrito che è una lingua morta come lo è il latino.
Insomma questa meta-disciplina è la logica che è necessaria anche nella matematica, anzi ne è la base. Il Migliari obietterà che i suoi principi - quelli della logica - non sono parte della geometria descrittiva: è vero, ma vengono continuamente applicati in essa e, allora, perché non richiamarli costantemente dal momento che si devono applicare in continuazione in "sequenze" di ragionamenti che portano alla soluzione corretta di problemi?

Questa circostanza non traspare affatto nello scritto del Migliari, come se si dimenticasse di essere un docente e dovesse essere, invece, il promoter di una qualche società di produzione software o di fornitura a terzi di disegni al CAD da vendere al chilo.
Avrei accettato di buon grado quello scritto del Migliari se nel titolo non vi fosse stata la parola "insegnamento", poiché ne riconosco valide le considerazioni al 98 per cento, ma quella parola, insegnamento, non viene poi esplicitata come ho cercato di spiegare sopra e, allora, mi pare l'abbia messa solo per un di più, per attirare il lettore, o solo per farsi dei sostenitori nella sua cerchia che, a questo, punto sembrerebbero essere più degli adepti che degli estimatori veri e propri.

Ma c'è un'altra considerazione da fare, e che va a favore del Migliari e degli sforzi collettivi della cosiddetta Scuola di Roma. E cioè che "la persistenza di atteggiamenti conservatori" (vedi n. 2) danno l'idea di colui che vuole continuare a comunicare a distanza con i segnali di fumo anziché usare un banale telefono cellulare e, pertanto, si sforza di far entrare nella testa del discente delle "tecniche" esecutive veramente "vecchie" e che, oggi, non servono a niente, salvo quanto esposto sopra, il che rappresenta la necessaria e insostituibile fase propedeutica che tornerà sempre utile in quanto a muscolatura logico-deduttiva e - perché no - induttiva che lo studente si porterà dietro anche in professioni diverse come ad esempio quelle relative alla giurisprudenza, all'amministrazione della cosa pubblica e financo nelle lettere.
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Mi permetterei, ora, di esprimere tre osservazioni, tra le tante altre possibili, a quell'articolo di Migliari.

Non si vede quale banale approssimazione abbia indotto il Migliari a "saltare" a piè pari lo scoglio del "ragionare correttamente" che viene dall'apprendimento della geometria e, in particolare, della geometria descrittiva e proiettiva solo per il fatto che ora (da 30 anni almeno) abbiamo il computer (vedi capoverso 2 dell'articolo di Migliari) che fa meglio e prima di noi che operiamo con squadrette e compasso. E' come se si dicesse che la matematica non serve perché ora ci sono le calcolatrici tascabili che sono più veloci e precise di noi. Ma questo ragionamento, a ben vedere, lo devono aver fatto anche i docenti delle scuole medie primarie, se è vero che alle superiori arrivano ragazzi che usano la calcolatrice del cellulare per fare 37 diviso 2 oppure 11 per 4.
In proposito, ricordo con affetto Carlo Felice Manara che ai corsi di aggiornamento, ormai ottantenne, tracciando aborti di figure alla lavagna luminosa perché gli tremavano le mani, ma si esprimeva con l'entusiasmo di un bambino che scopre una novità inaspettata, ripeteva spesso: "la geometria è l'arte di ragionare bene sulle figure sbagliate", nel senso che il disegno sarà sempre una rozza bozza rispetto all'idea geometrica della figura che abbiamo in testa. E ciò vale anche per il computer, che non è altro che il sostituto - molto più evoluto, è vero - dei vecchi tavoli da disegno con tecnigrafo, ormai scomparsi pure dai robivecchi e dagli antiquari, come lo saranno a breve i computer che conosciamo tuttora, che verranno sostituiti prima dai tablet e, poi, chissà da quale altra macchina elettronica, magari che legga le onde elettromagnetiche che escono dal nostro cervello e che le tramuti in disegno o testo a seconda del caso (sarà in un futuro molto prossimo, ci stanno già lavorando i coreani).
Aggiungerei che la preoccupazione che traspare da quell'articolo è come se la "somma questione" fosse di imparare un CAD anziché una disciplina: ci si potrebbe immaginare il Monge tutto preoccupato ad insegnare a Lacroix e Hachette come si maneggiano le squadrette e il compasso per fare una certa costruzione?

Ancora, non si vede quale novità vi sia nella cosiddetta scienza della rappresentazione, come la chiama il Migliari (e compagni della scuola di Roma) in diversi passi di quell'articolo, rispetto alla "vecchia" geometria proiettiva e descrittiva con applicazioni. Non se ne sente proprio il bisogno di un nuovo titolo per una materia "vecchia". E' come se la "vecchia" squadretta la dovessimo chiamare dispositivo grafico di tracciamento piano ortonormale, a voler far intendere che è un qualcosa di finora inusitato e invece sono secoli che si usa. Anche qui traspare un'attenzione alla disciplina e non ai "soggetti" cui è destinata, come se il titolo altisonante rispetto a quello arcinoto di geometria ecc. dovesse nobilitare chi ne è titolare di cattedra o, peggio, dovesse essere usato per giustificare una richiesta di nuove cattedre universitarie per precari a spasso.
In più, non è affatto una "scienza" la rappresentazione grafico-descrittiva, come non lo è l'architettura, perché entrambe utilizzano discipline prese a prestito che sono, sì, esse delle scienze e, come la rappresentazione, che io tornerei a chiamare disegno, usa la geometria e, oggi, l'informatica, così l'architettura usa la psicologia, la fisica (tecnica, e della scienza delle costruzioni), la chimica, la geometria (anche descrittiva), e l'informatica (gli architetti egiziani si formavano anche sull'astronomia e la medicina).

Ancora, e poi chiudo rispetto alla critica di quell'articolo, al punto [16] si vorrebbe identificare il progettare con la macchina che mi fa il disegno. Ma se non ce l'ho in testa quello che voglio fare, come posso disegnarlo? No, direi che progettare non è uguale a disegnare. E riconfermerei che la pianta viene pensata prima del prospetto, contrariamente al Migliari che le vorrebbe entrambe subordinate all'insieme volumetrico, in quanto è direttamente espressione della "pragmatica" intesa come parte della semiotica, e legata con la postura eretta dell'uomo e il verso di percorrenza orizzontale che è condizionato dalla forza di gravità, questa sì, veramente concreta e condizionante, molto più delle fantasie stilistiche di un alzato o di un planivolumetrico.
Non si tratta di "cambiare i metodi tradizionali di progettazione" - che, pure quelli andrebbero rivisti alla luce della sostenibilità - ma di impiegare un nuovo attrezzo a supporto di quelli, come un secolo e più fa si introdusse il tecnigrafo al posto di riga e compasso. E, come quello ha condizionato il "disegno" dell'architettura privilegiando l'angolo retto dal momento che i righelli lo erano reciprocamente, così questo (il PC) sta condizionando lo spazio costruito in virtù di quel che consente di fare il programma software (vedi, ad esempio, le mostre di architettura di Venezia del 2005 e di Genova del 2004, qui, qui, e qui).
E certo che la cosa desta un qualche entusiasmo, sono d'accordo con Migliari, ma se poi nascono le schifezze che si trovano in giro, tipo quelle di Zaha Hadid, che non hanno né capo né coda in un processo semiotico di significazione, tale è l'architettura, allora preferisco riga e compasso e metterci un po' di più per realizzare un progetto ma, dentro, ci metto l'anima (e la storia) e non solo il freddo virtuosismo di un CAD e le fantasie autopromotrici di chi lo usa.
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ALLEGATO
Riccardo Migliari, Riflessioni sulla Geometria Descrittiva e il suo insegnamento, in: DD - Disegno e design digitale, Vol. 1, Milano, 2002.
Nota. Il testo originale sul web non contiene corsivi né grassetti e viene riportato integralmente. Allo scopo di indicare passaggi si introdurranno eventuali corsivi, grassetti e altre forme di evidenziazione, come pure le note dello scrivente compaiono qui in parentesi [quadre].

[1] Vorrei dire che sembra lontano il tempo in cui si insegnava la Geometria Descrittiva, ma non posso, perché la si insegna ancora. Intendo la geometria 'inventata' da Gaspard Monge nel 1795, quella che rappresenta un piano con la prima e la seconda traccia.
[2] Eppure la Geometria Descrittiva oggi non serve più a nulla, perché se vuoi rappresentare un oggetto, che hai immaginato, puoi farlo prima e assai meglio usando un computer e un buon programma di modellazione.
[3] Tuttavia siamo in pochi a pensarla così, e la persistenza di atteggiamenti conservatori o, peggio, reazionari, rischia di scavare un solco profondo tra il mondo dell'informatica e il mondo della rappresentazione: un solco difficile da colmare. Per dovere di cronaca bisogna citare un altro atteggiamento, che non è meno pericoloso dei primi due: la sufficienza. E' quello di quanti sostengono che 'il computer non potrai mai sostituire …' e 'per usare il CAD bisogna comunque conoscere i metodi di rappresentazione…' e altre banalità del genere dettate solo dall'ignoranza e dalla pigrizia, la prima condizionata dalla seconda.
[4] Invece il problema del rinnovamento della didattica del disegno non è affatto banale e richiede un approccio teorico che è tutto da definire.
[5] In primo luogo: il disegno non può fare a meno del supporto della scienza della rappresentazione. Intendo, ovviamente, il disegno di un progettista, non quello di un pittore. Infatti, il disegno di un pittore è fine a sé stesso, mentre quello di un progettista è finalizzato alla realizzazione di un oggetto reale. Il disegno del progettista, in altre parole, deve essere sempre pronto a saltar fuori dal foglio, per generare nello spazio una forma tridimensionale. Come avviene, allora, questo prodigio?
[6] Avviene per il tramite di un codice che il disegno del progettista porta con sé. Ad esempio, se hai fatto una prospettiva e hai segnato un puntino nella fuga e nella traccia di una retta, la retta vera appare nello spazio quando unisci il tuo occhio con la fuga e costruisci la parallela che passa per la traccia: quella è la retta che hai rappresentato. Non voglio annoiare nessuno e perciò lascio ad altre e più consone occasioni il compito di approfondire questo concetto. Tuttavia mi sta a cuore l'idea di un disegno capace di questo invisibile ma concreto spessore. 
[7] Ora, è evidente che le informazioni relative allo spazio, racchiuse nel codice suddetto, sono state immesse nel disegno per il tramite di conoscenze che appartengono alla scienza della rappresentazione in senso lato, né per merito esclusivo di Monge, né per merito esclusivo di altri, ma per il naturale sviluppo della scienza stessa, attraverso la storia. E di questa storia, ora, fa parte anche il computer. Anzi, la sua presenza è tanto importante, da suggerire un nuovo e più efficace modo di chiamare il disegno del progettista: il termine esatto, non nuovissimo forse (vedi Fasolo), ma mai così pertinente come nel nostro tempo, è modello.
[8] Tutti i disegni del progettista sono modelli, come modelli sono le elaborazioni informatiche dell'idea progettuale.
[9] A prima vista, però, c'è un differenza profonda tra il modello informatico e quello grafico, poiché il primo appare in tre dimensioni, come se lo schermo del computer fosse una finestra aperta sul suo spazio, mentre il secondo appare inesorabilmente piano, come una fotografia. In realtà, basta riflettere un poco, per rendersi conto che la differenza è tutt'altra, poiché il primo, il modello informatico, è dinamico e a ciò si deve il suo realismo, mentre il secondo è statico. E il primo è dinamico solo perché costituito da un numero inesauribile di viste piane in rapida sequenza, mentre il secondo utilizza due sole viste, disgiunte o sovrapposte, ma entrambi nascono dall'applicazione, all'idea progettuale, dell'operazione di proiezione e sezione.

[10] La vera differenza, semmai, è un'altra: il modello informatico, infatti, esegue l'operazione di proiezione automaticamente, mentre nel modello grafico questa operazione è compiuta dal progettista, non senza fatica.
[11] Si potrebbe pensare, allora, che la scienza della rappresentazione non abbia più il ruolo centrale di un tempo, giacché insegna, appunto, a compiere operazioni che possono essere programmate una volta per tutte. Non è così, naturalmente, per vari motivi.
[12] In primo luogo, la scienza della rappresentazione insegna a modellare le forme nello spazio e si serve della proiezione solo come di un tramite indispensabile tra il progettista e la sua idea. Se si elencassero su due colonne le nozioni che appartengono al dominio della nostra scienza, disponendo da un lato quelle utili alla modellazione e dall'altro quelle utili alla costruzione dell'immagine, si vedrebbe che la prima colonna è assai più ricca della seconda.
[13] In secondo luogo, le conoscenze relative alla costruzione dell'immagine non intervengono solo nel momento della realizzazione, ma anche e soprattutto, nel momento della lettura e, perciò, sono indispensabili anche a chi usa un modello informatico.
[14] Infine, quelle conoscenze, rimosso il peso di teoremi e dimostrazioni, insomma del bagaglio scolastico delle informazioni, e consolidato ciò che resta quando si è dimenticato tutto, la cultura, cioè, servono a interagire con l'idea progettuale per il semplice e immediato tramite della matita, finalmente affrancati dalla faticosa costruzione di un disegno esatto, poiché la macchina è in grado di farlo, quel disegno, meglio di noi.
[15] Io presagisco dunque un tempo in cui il disegno tecnico sarà affidato alle macchine, l'espressione artistica resterà all'uomo, finalmente libero dalle incombenze, a volte frustranti, del disegno esecutivo.

[16] Non so se si arriverà a bandire dai cantieri e dalle officine i vecchi disegni quotati, sostituiti magari da un PC portatile, ma so per certo che la progettazione cambierà i suoi metodi tradizionali, se non li ha già cambiati. L'edificio, o l'oggetto di produzione industriale, sarà modellato direttamente nello spazio al quale appartiene, magari sulla scorta di qualche rapido schizzo, e gli elaborati tecnici saranno generati automaticamente, soltanto a progetto concluso. Tutto ciò è già tecnicamente possibile, e i migliori tra i nostri allievi lo sanno bene, ma non è ancora prassi generalizzata, poiché sopravvivono le vecchie e ormai logore abitudini, come disegnare una pianta e pensare poi ai prospetti.
[17] D'altronde, non è forse vero che un bravo progettista pensa la sua architettura nello spazio, cominciando dalle grandi masse, per perfezionare poi i dettagli? Così è sempre stato, prima ancora che i computer dischiudessero le loro finestre virtuali sulle nostre idee.
[18] L'insegnamento dovrebbe, ora, adeguarsi a queste inaspettate possibilità: insegnando la scienza della rappresentazione attraverso lo spazio, come dev'essere. Un tempo occorreva faticare assai per suscitare nello studente questa capacità immaginativa. Oggi, basta mostrare un modello informatico e tutto ciò che prima era oscuro (la proiezione, il ribaltamento, la relazione omologica, la ricostruzione nello spazio, etc.) diventa chiaro e luminoso.
[19] La modellazione informatica, applicata al progetto, non è dunque una tecnica da aggiungere ai curricula scolastici, ma una tecnica da integrare nell'insegnamento della scienza della rappresentazione.

[20] Qualche parola infine, vorrei spendere sul modo di insegnare questa nuova tecnica, cioè sulla didattica di questo aspetto della scienza della rappresentazione.
[21] Il primo punto è scontato: bisogna cominciare dal 3D. La modellazione tridimensionale precede, il disegno bidimensionale è una conseguenza, tant'è vero che può essere generato automaticamente, come sappiamo. Lo studente di conseguenza, trova in questo approccio il più semplice accesso al mondo della rappresentazione: impara a ragionare nello spazio e familiarizza con le sue rappresentazioni convenzionali attraverso il gioco delle viste informatiche.
[22] Il secondo punto è: insegnare i concetti, non i comandi. Bisogna che lo studente possa riconoscere in tutti i modelli, anche in quelli grafici, le medesime operazioni. Vorrei fare un esempio, per chiarire: il piano di costruzione (che alcuni chiamano piano di lavoro e altri ACS e altri ancora UCS) è il medesimo piano nel quale si opera per misurare un disegno, è il piano che viene ruotato in una operazione grafica di ribaltamento e così via. E' un concetto universale, e così molti altri, perché no, tutti gli altri. Ne consegue che, anche se può essere utile adottare un software in particolare, come si adotta un libro di testo, bisognerebbe però mostrarne molti agli studenti, evidenziando i caratteri comuni, proprio come, nell'insegnamento di livello universitario, si segnala una bibliografia essenziale.

References
FASOLO, Marco. Laboratorio delle applicazioni grafiche. In MIGLIARI, Riccardo. Fondamenti della Rappresentazione Geometrica e Informatica dell'Architettura. Roma: Kappa , 2000. pp.269-325 ISBN 88-7890-356-6
MIGLIARI, Riccardo. Fondamenti della Rappresentazione Geometrica e Informatica dell'Architettura. Roma: Kappa , 2000. p.368 ISBN 88-7890-356-6
MIGLIARI, Riccardo. La rappresentazione e il controllo dello spazio: morte e trasfigurazione della Geometria Descrittiva. In Disegnare idee immagini - Ideas Images. Roma: Gangemi , 2000. vol. 20/21, pp.9-18 ISNN 1123-9247
VALENTI, Graziano Mario. Il laboratorio delle applicazioni Cad. In MIGLIARI, Riccardo. Fondamenti della Rappresentazione Geometrica e Informatica dell'Architettura. Roma: Kappa , 2000. pp.147-265 ISBN 978-88-7890-356-2